Fattori di rischio e caratteristiche di personalità - Dott.ssa Carolina Fallai

Fattori di rischio e caratteristiche di personalità

Diverse ricerche hanno evidenziato una relazione tra l’esordio del disturbo da attacchi di panico ed eventi stressanti come trasferimenti, cambiamenti nella situazione lavorativa, separazioni, divorzi o perdita di figure significative. Generalmente gli attacchi di panico si presentano in momenti di cambiamento che comportano la perdita di alcune certezze e di alcuni punti di riferimento abituali e che mettono quindi in crisi l’equilibrio già precario della persona.

Tratti ansiosi, insicurezza, dipendenza, mancanza di autostima, scarsa assertività e tendenza a rifuggire dalle situazioni non familiari sono tratti caratteriali che accomunano i pazienti con disturbi di panico. Essi pertanto temono le separazioni, hanno difficoltà a stabilire relazioni mature, a elaborare il lutto ed accettare in generale qualsiasi tipo di perdita.

Freud[1] per spiegare il fenomeno clinico del panico fece riferimento al concetto di ansia di separazione: quello stato d’animo di forte angoscia che il neonato, completamente dipendente dalle cure materne, prova nel momento in cui teme che la madre lo abbandoni o non sia disponibile a soddisfare i suoi bisogni. Questa angoscia di separazione, derivante da periodi arcaici dello sviluppo infantile, si riattiva nei momenti di stress che minacciano la sicurezza emotiva del soggetto, soprattutto quando emerge la paura di essere abbandonati o di perdere l’oggetto del proprio amore.

La ricerca in psicologia evolutiva ha infatti evidenziato che le prime esperienze con le figure di attaccamento sono molto importanti per plasmare le capacità dell’individuo di gestire le emozioni e di reagire in maniera adeguata agli eventi della vita.

Secondo la teoria dell’attaccamento di John Bowlby [2] la principale funzione dell’adulto è di fornire una base sicura al bambino affinché cresca con la consapevolezza che può allontanarsi per esplorare il mondo sapendo di non perdere l’affetto della propria famiglia e sapendo di poter ogni volta tornare e trovare dei genitori accoglienti e pronti a rassicurarlo. Lo sviluppo di un attaccamento sicuro nella prima infanzia consente al bambino di crescere in maniera armonica e di diventare un adulto autonomo, sicuro di sé e capace di realizzarsi.

Lo sviluppo del legame di attaccamento consente inoltre al bambino l’interiorizzazione di una rappresentazione mentale stabile della madre che è fondamentale per lo sviluppo della funzione riflessiva, cioè quella capacità di mentalizzazione che è alla base della regolazione e la gestione delle emozioni[3].

Esperienze di abuso, abbandono o trascuratezza nell’infanzia si traducono invece nello sviluppo di un attaccamento insicuro che può determinare nell’adulto difficoltà nell’elaborazione delle emozioni e nel gestire lo stress. Diversi autori hanno infatti riscontrato la presenza di stili di attaccamento insicuro nella storia dei pazienti affetti da disturbi d’ansia[4]; in particolare, nel disturbo da attacchi di panico sono state individuate manifestazioni del tipo evitante-spaventato, nel quale la ricerca di relazione si alterna al desiderio di isolamento e il comportamento oscilla tra il bisogno di evitare la separazione e quello di non sentirsi costretto da un attaccamento troppo intenso (Guidano, 1988).

Lo sviluppo di una personalità evitante può essere frutto anche di un’educazione da parte di genitori rigidi e controllanti che non tollerano la manifestazione delle emozioni da parte del figlio. Dato che la manifestazione delle emozioni negative e delle loro necessità psicologiche è stata proibita nell’età dello sviluppo, queste persone hanno imparato a ricorrere prevalentemente all’espressione corporea del proprio disagio (Baldoni 2010)[5].

La ricerca in psicosomatica ha evidenziato che i soggetti con attaccamento evitante hanno scarse capacità di elaborazione delle emozioni e difficoltà nella gestione dello stress che possono favorire la comparsa di scompensi psicosomatici, disturbi emotivi e disturbi da attacchi di panico. Questi individui tendono a portare un’eccessiva attenzione al proprio corpo e tendono ad essere preoccupati e spaventati da ogni segnale fisico, al quale reagiscono con allarme e apprensione. L’esagerazione della sofferenza fisica e la completa negazione delle proprie difficoltà psicologiche sono strategie difensive attraverso le quali cercano di assicurarsi l’attenzione delle proprie figure di riferimento.

In recenti indagini in pazienti con disturbo da attacchi di panico è stata infatti descritta una  tendenza all’alessitimia, che letteralmente significa “mancanza di parole per esprimere le emozioni” (Parker et al., 1998; Taylor et al., 2000). Questa sindrome comportamentale è stata associata con un maggior rischio di contrarre disturbi psicosomatici proprio perché mancando la consapevolezza della componente affettiva delle proprie emozioni, il corpo diventa l’unico veicolo espressivo.

Secondo il punto di vista psicodinamico gli individui che soffrono di attacchi di panico non sono stati in grado di completare il processo di separazione-individuazione dai propri genitori. La loro estrema fragilità è causata da esperienze infantili con genitori iperprotettivi che non sono stati in grado di favorire il processo di maturazione del figlio perché tendevano a spaventarlo e a scoraggiare qualsiasi tentativo di autonomia da parte del bambino. Infatti, facendo riferimento a Winnicott[6] affinché un individuo possa svilupparsi maniera sana e autentica, ha bisogno di un ambiente di sostegno, ovvero di un supporto adeguato all’interno del contesto familiare che gli consenta di acquisire la sicurezza in sé stesso per poter affrontare la vita adulta con le proprie risorse.

Nel periodo dello sviluppo la principale funzione materna è di sintonizzarsi con il figlio e di prendersi cura delle sue necessità affettive; la madre sufficientemente buona è quella madre capace di vedere il bambino nella sua autenticità e di accogliere le sue richieste e le sue necessità, legittimandolo così a esprimere i propri impulsi, i propri bisogni primari e le proprie emozioni.

Quando i genitori non accolgono le sue parti negative, o sono troppo occupati a proiettare sul bambino i propri desideri e le proprie aspettative, il bambino viene disconfermato nella sua reale essenza. È in questo momento che si determina la prima ferita primaria[7] al senso di sé del bambino, che, non sentendosi visto e confermato, è invaso da terrore e angoscia. Per scongiurare questa esperienza terribile il bambino è disposto a fare di tutto: egli adotta inconsciamente una personalità di sopravvivenza che gli serve a garantirsi l’amore e l’attenzione dei suoi genitori. Tuttavia, così facendo il bambino è costretto a sacrificare la sua parte più istintiva e vitale, che finisce per non essere integrata nella sua personalità; in lui si produce una scissione interna che può favorire lo sviluppo di un pensiero sradicato dal suo corpo, dalle sue pulsioni e dai suoi istinti.

Per paura di essere abbandonati, queste persone si mostrano indifese, buone e altruiste e tendono a reprimere l’aggressività e a negare i propri bisogni per andare incontro agli altri. In particolare, controllano le emozioni e la loro espressione e tentano continuamente di dimostrare di essere autosufficienti e di farcela da soli. Non avendo potuto sviluppare un sano senso di autostima e di fiducia nelle proprie possibilità, la loro profonda insicurezza si traduce in un ossessivo bisogno di controllo su tutti gli aspetti della realtà: sono incapaci di tollerare l’incertezza, pianificano e cercano di prevenire gli imprevisti.

Alcuni individui ansiosi sono estremamente esigenti con sé stessi e pretendono di ottenere prestazioni elevate in ogni campo della loro vita. Ogni minimo errore viene interpretato come un segnale del proprio fallimento e vissuto con forti sensi di colpa e inadeguatezza. Questo perfezionismo nevrotico finisce per portarli a non essere mai soddisfatti e a non concludere mai i loro propositi.

In questa corsa per dimostrare agli altri e a se stessi il proprio valore, si danno per gli altri ma non si curano di sé: spesso non riconoscono i propri bisogni fisici di riposo e tendono a sottovalutare o ignorare i segnali di stanchezza e di malessere del corpo. Tale stile di vita comporta livelli di stress che alla lunga diventano sfibranti e possono portare ad un sovraccarico eccessivo che può sfociare in un attacco di panico.

[1] Freud S., Inibizione, sintomo e angoscia, Opere cit., Vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino, 1926.
[2] Bowlby J., Attaccamento e perdita, Vol. 1, Bollati Boringhieri, Torino, 1978.
[3] Fonagy P., Target M., Attaccamento e funzione riflessiva, Raffaello Cortina, Milano, 2001.
[4] Poerio V., Merenda G., La psicoterapia cognitivo-comportamentale nella pratica clinica, Firera & Liuzzo  Publishing, Roma, 2008.
[5] Baldoni F., La prospettiva psicosomatica, Il Mulino, Bologna, 2010.
[6] Winnicott D., Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, Roma, 1974.
[7] Firman J., Gila A., La ferita primaria, L’Uomo, Firenze, 2004.

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